Qualche settimana fa, nei giorni dell’uscita della nuova stagione di Doc – Nelle tue mani, i giornali annunciavano che uno dei suoi personaggi, Gianmarco Saurino sarebbe stato il primo medico a morire di Covid-19 in una serie tv.
Se ciò può costituire una particolarità, non lo è il fatto che un telefilm parli di questa pandemia che ci ha toccatə e che ha cambiato radicalmente le nostre vite.
Infatti, basta fare qualche ricerca su internet o sulle varie piattaforme di streaming per trovare numerosi film e serie tv che parlano del Coronavirus, dei drammi vissuti negli ospedali e del lockdown. Non tutti questi prodotti risultano essere effettivamente di qualità, ma il fatto stesso che essi siano stati girati e proposti al grande pubblico – anche se l’epidemia non è ancora finita – risulta essere estremamente interessante.
Ciò dimostra che qualcosa nel nostro atteggiamento verso il virus è cambiato, così come è mutata la nostra posizione mentale verso la convivenza con esso e con le misure restrittive.
Ormai pare assodato che, direttamente o indirettamente, l’epidemia ha colpito tuttə: medicə, infermierə e sanitarə, dei/lle quali moltə hanno sviluppato disturbi da stress post-traumatico (1), similmente le persone malate e chi è stato in terapia intensiva (2); ma anche altre fasce della popolazione (bambinə, adolescenti ecc.) che non l’hanno subìto in prima persona, ma che hanno dovuto cambiare radicalmente le loro esistenze e la loro socialità (3).
Il Covid-19, insomma, costituisce un trauma collettivo, che stiamo ancora cercando di rielaborare e sconfiggere.
Cosa c’entra l’impatto psicologico di questa pandemia con i film e le serie tv?
Il fatto di aver iniziato a rappresentarlo, anche nei suoi risvolti più drammatici – si veda Doc o The Good Doctor (in cui emerge chiaramente il tema dello stress post-traumatico) – potrebbe dimostrare che siamo giunti al primo step verso l’elaborazione di questo trauma.
Abbiamo iniziato a condividere le nostre paure e a raccontare ricordi di momenti estremamente dolorosi.
Questa posizione di maggiore apertura è stata resa possibile dalle sempre crescenti conoscenze che abbiamo del virus: la scienza ha scoperto e sta scoprendo costantemente cose nuove, ha affinato i protocolli di cura e, soprattutto, ha trovato dei vaccini che allontanano le sue conseguenze più nefaste.
Conoscendo un po’ meglio il Covid-19, abbiamo iniziato a razionalizzare il virus, quello stesso che nei primi mesi del 2020 pareva essere una materia sconosciuta e appartenente a un’altra realtà.
Abbiamo, così, reso consce le nostre paure più nascoste.
Siamo arrivati a conviverci con un po’ più di serenità, per quanto possibile, e grazie a ciò, abbiamo cominciato il nostro percorso verso il superamento del trauma.
Il fatto che sempre più registə propongano pellicole sull’argomento, significa che esse piacciono e se questo accade è perché noi stessə le guardiamo con piacere. Magari ci fanno commuovere e ci fanno stare male, ma osservandole ci sentiamo come liberatə e iniziamo a creare una distanza tra noi e ciò che vediamo, il nostro vissuto e quello raccontato dal film.
Nel rivedere ciò che abbiamo passato – in maniera romanzata e non sempre fedele, ma comunque verosimile – si ottiene una sorta di catarsi.
Oltre i film più drammatici sull’argomento, è uscita anche qualche commedia. Un esempio ci viene dalla pellicola francese 8 rue de l’humanité di Dany Boon.
Il lungometraggio si svolge in una palazzina di Parigi durante il primo lockdown del 2020. I vari personaggi assumono atteggiamenti diversi verso ciò che gli accade: qualcuno nega o sminuisce, qualcuno vive costantemente in ansia, qualcun altro cerca di trovare valvole di sfogo.
La pellicola non è il massimo ed è piuttosto demenziale, ma ridicolizzando e stereotipando molti atteggiamenti verso Covid e lockdown, permette di ottenere una catarsi simile a quella di film e telefilm dall’impronta decisamente più drammatica. Ridendo di ciò di cui non avremmo forse mai pensato di ridere, affrontiamo le nostre angosce più recondite: di contagiarci, di perdere qualcuno o di morire noi stessə, solə.
Insomma, la pop culture essendo per sua stessa definizione pop ci rispecchia, parla di noi e analizzandola ci permette di capire qualcosa di più di ciò che siamo.
Ha i suoi limiti, ovviamente, ma ha anche una funzione nella nostra società che è sciocco negare per intellettualismo.
Non dobbiamo prendere questi film e queste serie tv sul Covid-19 come qualcosa di scientifico o di profondo, ma dobbiamo capire che il semplice fatto di guardarle (o non farlo) è assolutamente umano: abbiamo bisogno di esorcizzare le nostre paure, di rivivere il nostro trauma, di parlarne e di rappresentarlo attraverso la voce e l’interpretazione degli attori.
Ci vorrà ancora molto per uscire da questa epidemia, probabilmente, ma rendendoci conto di ciò che condividiamo, dovremmo iniziare ad affrontare questo trauma collettivo insieme, senza odio, divisioni e/o atteggiamenti irrazionali.
FONTI:
- https://www.ordinemedicifc.it/2021/08/30/covid-19-impatto-sulla-salute-mentale-di-medici-e-operatori-sanitari/
- https://www.hsr.it/news/2021/novembre/studio-covid-sviluppo-depressione-ansia
- Si vedano, ad esempio, i seguenti articoli: https://www.lescienze.it/mind/2022/01/25/news/covid_bambini_sviluppo_cervello_deficit_motricita_comportamento_recupero-7566796/ ; https://www.fondazioneveronesi.it/magazine/articoli/pediatria/covid-19-lisolamento-raccontato-da-bambini-e-adolescenti
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