Haraway e la natura artefatta

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Haraway

Senza dubbio, quella di Donna Haraway è una delle teorie femministe più affascinanti, sia per gli orizzonti che apre sia per la particolarissima scrittura utilizzata per farlo. Ed è proprio in questo cruciale pensiero che troviamo un concetto, quello di natura artefatta, che ci permette di rivedere il modo in cui stiamo al mondo e ci rapportiamo con esso. 


Harway definisce la natura innanzitutto come un topos, ossia un luogo comune in cui tutto ciò che partecipa al reale si muove e opera.


Questo muoversi degli organismi consiste proprio nel produrre la natura. Per tale motivo la natura è sì data, ma al contempo è artefatta, prodotta. Questa tesi ha una prima immediata conseguenza, ossia quella di scardinare tutte le teorie della natura trascendente come entità superiore che determina tutte le sue parti, i suoi organismi, che invece ora si danno sul suo stesso piano.

Eppure, parlare di natura come prodotto potrebbe far storcere il naso a una contemporaneità come la nostra, tanto impegnata a combattere l’idea dell’intervento senza freni che l’uomo opera tramite la sua tecnica. Ma la potenza della teoria di Haraway sta proprio nel non ricadere in questa idea della natura artefatta come natura reificata nel segno della tecnica. Infatti, quando parla di produzione, non si riferisce esclusivamente a quella umana, ma a quella di tuttə lə attantə che abitano il reale e che in esso agiscono o sono agiti, ossia hanno degli effetti. Quindi, nessun rischio di un dominio della tecnica, nessun rischio di un antropocentrismo: l’antropos non è più il centro focale della natura, perché la condivide e la realizza sempre in una relazione con tutto ciò che c’è nella realtà.


Oltre a questa ricaduta sul modo in cui pensiamo la nostra soggettività, la teoria della natura artefatta ha anche un risvolto immediatamente politico.


Difatti, nel prendere delle decisioni relative, per esempio, a come curarsi dell’ambiente, non possiamo più pensare solo a cosa ne guadagnerebbe l’umanità ora o nelle future generazioni – la sopravvivenza – ma anche a come i danni alla natura impattano tuttə lə altrə attantə, a partire dagli esseri viventi non-umani fino ad arrivare al non vivente. Questa è definita da Haraway politica dell’articolazione, una politica che abbandona l’idea di una rappresentanza dall’alto.

Ovviamente, questa idea di politica è direttamente collegata al modo in cui concepiamo il mondo e di cui ne diamo conto. Riconoscere che la natura è collettivamente artefatta ci costringe ad accettare che le nostre spiegazioni sugli eventi della realtà sono sempre parziali, perché dipendono dal posizionamento che abbiamo nella realtà. Ma questo non è più un difetto, come nel pensiero tecnico-scientifico che dà valore solo alla neutralità, quanto piuttosto un grosso vantaggio, perché è l’unico modo di fare scienza e teoria che dia conto del modo collettivo e composito da cui la realtà è costituita


Insomma, parlando di natura artefatta Haraway apre tantissimi spiragli verso un nuovo modo di vivere, pensare e teorizzare la collettività.


L’alleanza, la parzialità, la dipendenza diventano i concetti focali attorno a cui ruota la concezione che abbiamo del mondo, ed è proprio a questi che il femminismo deve guardare per scardinare l’ordine dell’uomo come produttore di tutto, addirittura di se stesso. 




BIBLIOGRAFIA

D. Haraway, Le promesse dei mostri. Una politica rigeneratrice per l’alterità inappropriata, DriveApprodi, Roma 2019.

Immagine di copertina: https://commons.wikimedia.org/wiki/File:Donna_Haraway_2016_2.png
Immagine utilizzata al solo scopo di contestualizzazione. Nessun provento realizzato. La redazione rimane a disposizione.