Schwa o non schwa? Questo è il dilemma.
Uno degli ultimi arrivi nella collana Vele di Einaudi è destinato a suscitare non poche discussioni, dato che entra nel merito di una questione particolarmente delicata: l’esigenza di rendere più inclusivo il linguaggio e, in particolare, di superare il binarismo di genere presente nella lingua italiana.
Supportata da alcunə addettə ai lavori come la linguista Vera Gheno, tramite la sua attività online e il saggio Femminili singolari, la proposta di introdurre l’utilizzo del segno fonetico “ə” per riferirsi in modo neutro alle persone è diventata sempre più consuetudinaria negli ultimi anni, specialmente all’interno delle comunità femministe e LGBTQ+.
Ma, accanto all’evidente intenzione inclusiva, quali sono i costi e i benefici di questa proposta? E in che modo, se si decidesse di attuarla in modo ufficiale e organizzato, si potrebbe introdurre un uso normato e normale della “ə” nella lingua italiana?
De Benedetti, autore di questo saggio, è evidentemente contrario a questa proposta. Gran parte del libro è dedicata alla messa in discussione della fattibilità di questa piccola grande rivoluzione linguistica, con lo scopo dichiarato di dimostrare che, in questo caso, i costi superino i benefici. La lettura di Così non schwa è però piuttosto interessante anche per chi guarda con favore a questa nuova prassi, per avere accesso a un punto di vista critico e non ciecamente ideologico (in un senso o nell’altro) sulla questione.
È vero infatti che negli ultimi anni l’uso dello schwa è diventato un marchio identitario, una modalità di espressione che si suppone dimostri che chi la adotta appartiene a un gruppo di persone progressiste e sensibili alle tematiche relative all’inclusione. Il rovescio della medaglia è che oggi, soprattutto all’interno di certi ambienti, sorge presto il sospetto o la certezza che chi non la usa sia invece portatore di ideali conservatori e discriminanti. Si parla anche di una vera e propria violenza linguistica, portata avanti attraverso l’esclusione di coloro il cui genere non è identificato fedelmente dall’uso del maschile, specialmente quando sovraesteso.
La domanda è dunque: è possibile esprimere scetticismo o contrarietà rispetto all’uso dello schwa senza essere tacciatə di intento discriminatorio?
L’interrogativo mostra che in questo caso il tema è duplice: da un lato, infatti, ci sono le istanze legate al l’identità di genere delle persone di cui si parla usando o meno lo schwa, dall’altro c’è quello che le scelte linguistiche dicono di chi le compie, di chi è questa persona e di dove si posiziona rispetto a una galassia di valori e visioni del mondo.
Le obiezioni di De Benetti, sebbene non siano sempre efficaci, pongono anche situazioni pratiche che devono essere necessariamente prese in considerazione da chiunque voglia davvero dare una possibilità allo schwa. Problematiche legate alle difficoltà connesse all’introduzione di un genere neutro nella lingua italiana, alla leggibilità per persone dislessiche e alle prassi da introdurre, ad esempio, a scuola, rimangono in effetti da affrontare se si vuole fare di questo segno fonetico lo strumento efficace di inclusione linguistica del futuro.
Il testo di per sé invita a un approccio critico e dialogato sull’argomento, evitando proprio di arroccarsi sempre di più in posizioni identitarie troppo rigide, che trasformino ogni discussione in una battaglia buoni contro cattivi, progresso contro intento reazionario, dittatura linguistica contro libertà di espressione.
Che si sia a favore o scetticə, quindi, la lettura di Così non schwa fornisce spunti di riflessione interessanti e spesso convincenti, in un senso o nell’altro.
Grazie a Einaudi!
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