Come intendiamo la parola “politica”? Generalmente, o almeno in misura più vicina alla nostra quotidianità, si possono tracciare almeno due sfere di significato con cui tale termine viene adoperato: uno attiene all’universo dell’amministrazione, della performance, della gestione della sfera pubblica, banalmente alla politica dei partiti e delle campagne elettorali; l’altro, invece, più profondo e per questo essenziale, riguarda la politica come mondo comune, come sfera dell’esistenza concreta, come quella “cosa pubblica” fondante che sta alla base di tutti i modi di intendere il politico e la politica.
È interessante provare ad analizzare come questi due emisferi si rapportino tra loro e come si vengano a delineare rimandi e sovrapposizioni spesso inosservati.
Uno degli angoli che offre una prospettiva privilegiata su questo raffronto è, senza dubbio, quello della duplice accezione con cui la rappresentazione, in questo caso politica, può essere intesa.
Ci viene in soccorso la metafora arendtiana della rappresentazione teatrale, su cui si costruisce il parallelismo con quella politica (1). La politica, come la rappresentazione teatrale, può essere intesa nel doppio significato di spazio in cui apparire e messa in scena dell’apparire degli individui. La sfera pubblica, cioè, si configura sia come luogo di apparenza, sia come possibilità dell’apparenza, dal momento che è proprio agendo che si dà forma alla società, così come il mondo-teatro prende forma tra gli attori stessi.
Se ne deduce che è l’apparire attraverso gesti, forme, parole e discorsi – ovvero la performance, l’agire – che rende possibile l’apparenza – cioè l’esistere, dato che per Arendt essere e apparire coincidono (2) – dello spazio (pubblico) in cui farlo, così come dipende dalla messa in scena degli attori l’esistenza dello spettacolo: senza azione, movimento, il luogo-teatro cessa di essere, scompare e si disintegra. Allo stesso tempo, il vincolo tra apparire e apparenza è reciproco: comporta da un lato che la performance orienti lo spazio delle apparenze, dall’altro che lo spazio influenzi e plasmi la messa in scena stessa.
Detto in altri termini: se la sfera pubblica si configura come spazio mobile di incontro-scontro tra soggetti e pluralità che si mostrano e agiscono reciprocamente, è proprio da questa co-esistenza nella sfera pubblica che si esplica il modo di vivere comune.
Come uno spettacolo, è dal movimento armonioso tra le parti e il tutto che emerge la trama, che i discorsi prendono una sfumatura di colore, che assumono significato le azioni degli attori. Rappresentandosi, agendo nello spazio pubblico, si contribuisce sia creare il mondo così come gli attori creano lo spettacolo, sia a calcare la via dei mo(n)di possibili di agire. Da questo gioco di rimandi e di metafore si può dedurre, quindi, che nella messa in scena della politica, agendo e scegliendo cosa rappresentare, si sceglie anche cosa è scena pubblica, cosa dovrebbe essere (3).
Agendo nello spazio pubblico, cioè, non solo si agisce per se stessi, ma si delinea il contorno delle azioni altrui, si sorregge la possibile messa in scena delle altre soggettività. É certamente suggestivo che la Repubblica italiana sia improntata sulla democrazia rappresentativa, ma ho l’impressione che spesso si perda il peso del valore della parola “rappresentazione”.
Se, come abbiamo detto, ogni messa in scena forma la possibilità e i modi di apparizione altrui, ne deriva che ogni azione porti con sé la responsabilità sia individuale che collettiva.
Rappresentare in politica, quindi, è carico di questo significato vincolante: il mio agire dipende dal tuo e viceversa.
Se già noi solə, agendo, siamo responsabili per tuttə, portando sul nostro capo il peso delle sorti del mondo, chi del mondo è chiamato a farsi carico, nella sua funzione di rappresentare la collettività, dovrebbe percepire sulle proprie azioni il peso di una responsabilità infinitamente più grande.
(1) H. Arendt, La vita della mente, Il Mulino, Bologna, 2009, p. 101, dove si legge: «Gli esseri viventi fanno la loro apparizione nel mondo come attori su una scena allestita per loro».
(2) H. Arendt, La vita della mente, Il Mulino, Bologna, 2009, p. 99.
(3) J.P. Sartre, L’esistenzialismo è un umanismo, Ugo Mursia Editore, Milano, 1946, p. 31, dove si legge: «Quando diciamo che l’uomo si sceglie, intendiamo che ciascuno di noi, scegliendosi, sceglie per tutti gli uomini. Infatti, non c’è un solo dei nostri atti che, creando l’uomo che vogliamo essere, non crei nello stesso tempo una immagine dell’uomo quale noi giudichiamo debba essere».
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