Ode alla ripetizione: Perfect days e Kierkegaard

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Hirayama, il protagonista di Perfect days, regia di Wim Wenders, si sveglia tutti i giorni alla stessa ora senza bisogno della sveglia, ripiega con cura il suo futon, si lava i denti e la faccia, si veste e comincia placidamente le sue giornate, tutte uguali le une alle altre, almeno dal punto di vista della ripetizione esteriore delle azioni e degli eventi (1).

Ogni mattina, subito dopo aver richiuso la porta di casa ma prima ancora di essersi messo alla guida del suo furgone, alza gli occhi al cielo, e nulla c’è, in quello sguardo, di meccanico o monotono: c’è anzi il silenzioso e interiore ringraziamento per un nuovo giorno che comincia.

A Hirayama non pesano la ripetitività della sua vita e della sua routine, perché sembra ogni giorno rivolgersi al mondo che lo circonda con la gioia genuina che caratterizza le prime volte. 

Parla poco, Hirayama, non possiede più di quanto non gli serva, non consuma più di quanto gli sia strettamente necessario. Ne risulta un film straordinario, ipnotico, dove le parole cedono il posto ai gesti, e alla buona musica. Perfect day di Lou Reed, Pale Blue Eyes dei Velvet Underground e (Sittin’ On) the Dock of the Bay di Otis Redding lo incorniciano alla perfezione. 

Ma, allora, potremmo chiederci mentre le luci si accendono e i titoli di coda scorrono, una cosa acquisisce valore o ne perde a essere ripetuta?

Che ne è dell’aspirazione al rinnovamento, al cambiamento?

Nel 1843 se lo era chiesto Kierkegaard, che al tema ha dedicato un volumetto: La ripetizione. Un saggio di psicologia sperimentale (2).

Il punto di partenza della sua riflessione è effettivamente un esperimento, volto a verificare se, concretamente, nella vita di tutti i giorni, è possibile ripetere una stessa esperienza portando nuovamente alla luce le medesime sensazioni – positive o negative che fossero – che l’avevano accompagnata.

La risposta è negativa, ma questo lo conduce a sviluppare una tesi sul concetto di ripetizione che risuona molto nel film di Wenders. 

La ripetizione può infatti intendersi come fallimentare se la si considera unicamente nel suo aspetto esteriore: tornare in una città che ci era molto piaciuta, andare a mangiare negli stessi posti che conosciamo a memoria, riproporre gli stessi itinerari, sperando con ciò di rivivere le stesse e identiche emozioni che avevamo provato la prima volta, sono tentativi votati all’insuccesso. 

La ripetizione per come la intende Kierkegaard, invece, significa recuperare un evento che nel passato è già accaduto, portarlo a rinnovata esistenza e produrre di pari passo un rinnovamento interiore che dischiuda sempre nuove possibilità di interpretazione. 

Non c’è nessuna riproposizione oggettiva dell’accaduto, ma anzi un movimento verso il non-ancora, un progetto verso il futuro, che è libero da ogni vincolo legato al passato e alla nostalgia. (3)

Nella ripetizione la libertà giunge finalmente alla sua essenza, e ri-nasce ogni volta di nuovo, perché è un modo di entrare trasversalmente nell’eternità, tagliando il tempo.

È un entrare nell’eternità in avanti, e non all’indietro. 

Sul tema sono importanti le riflessioni non solo di Kierkegaard, ma anche di Nietzsche, e di Deleuze lettore di Nietzsche: in aperta polemica con il pensiero dialettico occidentale (Hegel su tutti), la ripetizione viene interpretata positivamente, come un concetto intrattenente un legame con la nozione di differenza, più che di identità. A ritornare, per quanto paradossale possa suonare, è il molteplice e non l’uguale, che così configura il divenire. (4)

In altre parole, il ripetersi degli eventi non presuppone un evento originario cui assomigliare, ma anzi è una modalità affermativa dell’essere, «sintesi del tempo e delle sue dimensioni, sintesi del diverso e della sua riproduzione». (5)

Se, dunque, custodiamo questo insegnamento e consideriamo la ripetizione come la modalità attraverso la quale l’esistenza sa rinnovarsi e donarsi nuova vita, comprendiamo a fondo l’esperimento di Wenders nel costruire il film e il personaggio. 

Sappiamo benissimo che la ripetitività delle azioni, nella visione occidentale, ha assunto una connotazione fortemente negativa.

Vige, invece, la continua ricerca del nuovo, della crescita, dell’accumulazione, “getto e ne prendo uno nuovo” al posto del riutilizzo, dell’apprezzamento di ciò che si ha, e della condivisione, principi guida della filosofia di vita orientale. 

Hirayama ci insegna allora qualcosa che, nella cultura giapponese, è radicato da secoli, e su cui anche in Occidente abbiamo riflettuto, anche se spesso ce lo scordiamo: la ripetizione, il riutilizzo, l’essenzialità sono tutte cose che nulla tolgono al desiderio di novità ed esplorazione, anelito che tutti naturalmente abbiamo, ma al contrario ne amplificano il valore, aprono alla condivisione, rendendo possibili nuovi sguardi critici e nuovi punti di vista, e permettendo di gioire delle piccole cose.

(1) Perfect days, regia di Wim Wenders, 2023.

(2) S. Kierkegaard, La ripetizione. Un esperimento psicologico, Rizzoli, Milano, 1996.

(3) M. Vittorio, Esistere è ricordare? Sul concetto di ripetizione in Kierkegaard

(4) Livio Ghiringhelli, Deleuze e la ripetizione

(5) G. Deleuze, Nietzsche e la filosofia, Einaudi, Torino, 1992, p. 73.

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