Lost, vent’anni dopo

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Nella labile e larga definizione di cultura generale, c’è da perdersi.

Ci sono i libri che hanno fatto la letteratura, i film dei grandi autori, i dischi che hanno scandito, decade dopo decade, il passare del tempo.

Tuttə, o almeno lə più disonestə di noi, dichiariamo di conoscerli e facciamo sì con la testa quando qualcunǝ ce ne parla – d’altronde, li abbiamo sentiti nominare talmente tante volte che forse forse possiamo improvvisare.

La Recherche di Proust, volutamente troncata nel titolo così che suoni più familiare; i film di Tarkovskij, conclamati capolavori; le Critiche di Kant, che rendono facile la menzogna con la massima più citata di sempre: il cielo stellato sopra di me, la legge morale dentro di me.

Insomma, sopravvivere alla propria ignoranza, almeno nelle conversazioni più superficiali, è possibile.

Vuoi mettere, però, padroneggiare l’argomento? Capire davvero perché i mostri sacri della cultura sono tali da essere conosciuti da tuttə?

Non ancora pronta ad affrontare La Recherche, ho deciso di dedicare anima e corpo a una sua parente più giovane.

Ed è così che, a vent’anni dalla sua uscita, ho finalmente guardato Lost, la serie più celebre della storia della televisione.

E visto che su Lost si è scritto di tutto, ho deciso di elencare le ragioni per cui, secondo me e senza spoiler, è invecchiata più che bene.

L’high concept

Quando nel 2004 debutta su ABC, Lost ha già un’impronta riconoscibile: è un cosiddetto high concept, termine che in gergo indica un’opera narrativa ben riconoscibile, identificabile in poche battute, semplice ed efficace.

Un disastro aereo. Un’isola deserta e misteriosa. Un gruppo di sopravvissuti.

Lost serve agli spettatori il problema da risolvere, l’arena e il sistema də personaggə immediatamente, in un pilot che è un capolavoro coreografico per come riesce a delineare tramite poche battute e un’attenzione maniacale ai gesti lə protagonistə della prima stagione.
Se l’high concept è una tendenza anche nella serialità odierna, che guarda a prodotti facili da vendere e da far emergere in un mercato sempre più saturo, quello di Lost è un high concept che mantiene le sue promesse.

Non è solo un’idea originale e semplice da comunicare, ma un punto di partenza fertile di sviluppi, conseguenze, conflitti.

Un monito a guardare i prodotti dell’oggi con occhio critico: uno spunto interessante può forse acchiappare l’attenzione del pubblico nell’era della distrazione da social network, ma non basta. L’high concept dà avvio, ma non fa la serie.

Lǝ spettatorǝ deve essere continuamente stimolato nel suo desiderio di proseguire con il racconto, che in Lost si nutre di cliffhanger e colpi di scena. Funzionali un tempo, nell’attesa bruciante dell’episodio successivo di settimana in settimana, ma anche nel più contemporaneo binge watching.

I personaggi

L’attaccamento emotivo è una questione importante, soprattutto nella serialità. Quando passa l’entusiasmo per il concept, entrano in gioco lə verə protagonistə di una serie tv: i personaggi.

Di Lost ci interessa l’isola deserta, vogliamo capire se da quel luogo è possibile fuggire e se nasconde dei segreti. Soprattutto, però, vogliamo vedere come si intersecano le vite dellə nostrə protagonistə, fare il tifo per loro, soffrire delle loro perdite.
In Lost, l’attaccamento è aiutato da un meccanismo molto intelligente (ripreso più e più volte dalla narrazione televisiva, per citare un esempio anche dalla nostrana e più furbetta Mare Fuori), ovvero l’alternanza temporale.

Vediamo lə personaggə nel presente dell’isola, ma pian piano lə conosciamo tramite i flashback alle loro vite pre-disastro aereo. Come spettatorə, abbiamo accesso a informazioni sul personaggio che i suoi compagni dispersi non hanno – e così possiamo immaginare, capire, giustificare i suoi comportamenti, sperare che questo o quel segreto venga fuori il più tardi possibile.

Come spettatorə, siamo alleatə, perlomeno fino a quando il nostro senso morale non viene preso in causa. È allora che ci scopriamo giudici, a volte impietosi e a volte capaci di perdonare, ma sempre sul filo dell’ambiguità. L’arena estrema che è l’isola, infatti, amplifica tutti i dilemmi ed è il terreno ideale per fare esercizio di astrazione.

Lə personaggə diventano il luogo in cui tutto è possibile: la compresenza di bene e male, di volontà e compromesso, di ragione e passione. E il loro esercizio di vizi e di virtù rimanda ai più noti, e più universali, dilemmi etici.

La filosofia

Lost è forse la serie filosofica per eccellenza. Lo dimostrano lə personaggə, apertamente chiamati Locke, Hume, Rousseau, Bakunin. Lo dimostrano soprattutto le prove a cui questə personaggə sono sottopostə, sfide alla sopravvivenza, ma anche all’umano desiderio di conoscenza, all’esercizio della ragione e all’abbandono alla fede.

In Lost, ogni protagonista è costretto a mettere in dubbio il suo sistema di credenze, in un ritorno allo stato di natura letterale.

Privatə di tutto, lə personaggə ricostruiscono la società civile, in una visione molto più ottimista di quella de Il signore delle mosche, ma che comunque stimola delle domande senza tempo: cosa farei se capitasse a me? Che ruolo mi troverei a ricoprire in simili circostanze?

Il portato filosofico di Lost la rende tanto interessante oggi quanto lo era vent’anni fa, perché oltrepassa i confini della storia e va alle radici dell’uomo, della sua esistenza – senza però essere troppo cerebrale.
Una nota di merito va alla tematizzazione del tempo, che man mano che le stagioni progrediscono diventa un elemento sempre più importante: è un invito a leggere qualche bel manuale di filosofia della scienza, e a fantasticare sulle possibilità fisiche del nostro mondo.

Uomini e donne

Lost ha forse un unico difetto: è una serie di uomini che fanno gli uomini e di donne che fanno le donne, nel senso più eteronormato che ci sia.

Di relazioni che chiameremmo tossiche ce ne sono alcune, di red flag altrettante, di canonici ruoli femminili di cura altri ancora. Forse, consapevolə dei vent’anni di distanza, possiamo aggirare il problema. Guardare una serie come Lost impone una responsabilità spettatoriale: il tempo passa, le concezioni cambiano, la rappresentazione si diversifica.

Non priviamoci, quindi, del piacere di una serie scritta come si deve solo perché a livello rappresentativo è tradizionalista.

Prendiamo il buono che può darci – e qui mi rivolgo soprattutto a chi, come me poco fa, non l’aveva ancora vista – e trasformiamolo in tutto ciò che vogliamo che sia.