La crisi della nostra identità nelle separazioni

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L’esistenza di ognun* di noi è scandita da una sequenza inesorabile di rotture, traumi e separazioni: volute o imposte poco importa, nessuno ne è esente. 

Il dolore per la perdita dell’oggetto amato è una variabile personale, in quanto non tutt* lo sentono con la stessa intensità. Per alcuni la sofferenza massima è connessa con la separazione fisica, con la morte, in quanto vissuta come evento definitivo; per altr* è connessa alle rotture emotive (che tratteremo in questo articolo) come la separazione dal* propri* compagn*, dalle proprie figlie/figli a causa del naturale processo di crescita e di allontanamento dal nucleo familiare, ma anche da noi stess* e dall’immagine di efficienza che la società ci impone di indossare in seguito a malattie invalidanti. 

«Ci piacerebbe che la rottura fosse un taglio netto. Preciso e chirurgico, d’un sol colpo, come la sciabola che decapita. Invece la rottura è una lacerazione» (1): ci infligge un dolore fisico e psichico insopportabile, che deforma tutta la nostra identità, la nostra esistenza rendendoci mostruos*, deformati dall’infelicità, dalla vergogna di essere stat* respint*, esclus*, allontanat*.

A volte siamo noi stess* artefici di quella rottura, in quanto dobbiamo “rompere” per fuggire e salvarci da ciò che minaccia o impedisce la nostra stessa esistenza: in tal caso, attraverso la rottura, creiamo le condizioni affinché il nostro io possa manifestarsi e realizzarsi in tutta la propria pienezza.

Altre volte invece le subiamo e le viviamo come un trauma, come fallimenti. 

Alcune di queste situazioni fanno però emergere un evento interessante, ovvero che «nella prova della rottura qualcosa in noi resiste all’annientamento. Quello che sopporto dice qualcosa della mia forza. Resta da capire perché alcuni cedono e crollano sotto la violenza della lacerazione e altri invece si stupiscono di continuare a vivere, anche amputati di una parte della loro vita. Perché questa prova spezza alcuni e rinforza altri?» (2).

Sarebbe bello pensare che questo dolore possa essere trasformato in conoscenza e consapevolezza, come occasione di una vita nuova, di una pagina bianca per dipingere la nostra nuova identità. 

Ma se non fosse così?

Se questo fallimento fosse semplicemente un fallimento puro e semplice, un insuccesso totale che non ci ha insegnato niente? Se ci rivelasse il nostro deserto interiore, la nostra inquietudine legata a un vuoto che cerchiamo di dissimulare? 

«Forse veniamo lasciati non tanto per quello che siamo, ma per quello che non siamo. Perché non corrispondiamo al desiderio dell’altro, ma anche perché siamo profondamente privi di desiderio, vuoti di quel desiderio che pure, come ci sentiamo ripetere fino allo sfinimento, dovrebbe costituirci» (3).

Potrebbe essere.

Come potrebbe anche essere che tutte le nostre azioni, come il coraggio di reagire a ciò che ci accade, la forza con cui resistiamo alle sfide imposte dalla vita, la determinazione nel trasformare il fallimento in nuova opportunità, definiscano chi siamo realmente, facciano emergere la nostra vera identità, il nostro vero io.

La domanda, molto provocatoria, diventa quindi la seguente: chi siamo quando smettiamo di essere amat*?

Secondo Pascal la riposta è semplice: non amiamo nessuna persona, se per qualità prese a prestito, ovvero è dall’amore degli altri che prendiamo in prestito le nostre qualità (4).

Quindi l’identità che ci creiamo quando siamo in un rapporto di amore, è falsa, illusoria: quando veniamo lasciat* d’un tratto smettiamo di essere persone intelligenti, divertenti, attraenti, perché tutte queste qualità non le sentivamo nostre, ma ce le attribuivamo specchiandoci negli occhi dell’Altro.

Dopo la rottura la certezza della nostra identità vacilla, l’illusione di un nostro io svanisce.

Chi siamo adesso che siamo sol*?

Prima l’Altro era “nostro”, fuso in noi, i nostri corpi erano indistinti, ma quando cessa di amarci il nostro essere defluisce fuori di noi, si svuota. Con l’abbandono, l’Altro non si limita ad allontanarsi portandosi via un po’ della nostra identità, ma ci priva di quell’involucro protettivo e rassicurante rappresentato dalla sua presenza, sia fisica che emotiva, si porta via pezzi di noi lasciandoci il compito di riparare, soli, questa ferita.

In definitiva, tutte le persone messe alla prova da una rottura che le ha scosse, che le ha fatte vacillare, ne serbano un’impronta profonda: tutte sono infatti accomunate da un’esperienza di stravolgimento e/o annullamento della propria identità. Dopo la rottura non possiamo più pensare a noi stess* come prima, non possiamo nemmeno più pensare, come prima.

«L’amore può essere, e spesso è, terrificante quanto la morte» (5) diceva non a caso Bauman, un mutuo ipotecario su un futuro incerto e imperscrutabile: quando si è in due non esiste certezza.

Forse ha ragione la filosofa Catherine Malabou quando parla di “metamorfosi per mezzo della distruzione” (6), in cui il soggetto scompare, diserta la sua identità.

Non ha nemmeno più senso parlare di evento tragico o traumatico in quanto non c’è più un soggetto che lo vive e lo patisce. 

Questa “dispersione soggettiva” quando non conduce a una situazione psichica distruttiva e depressiva, può rivelarsi indispensabile per interrogarci sul modo in cui ci riveliamo a noi stess*: forse diventiamo “noi” per caso, più che per una necessità profonda. In questo senso diventare noi stess* sarebbe una sorpresa, un caso che avverrebbe senza preavviso. Non si tratterebbe quindi di «un’identità che attraversa la prova e si tempra ma di un io imprevedibile, inedito, che si improvvisa al momento» (7).

Solo in seguito a questa nuova, inaspettata, rinascita potremo tornare ad avere quello slancio di vita necessario per tornare ad avere fiducia in essa.

Ma come facciamo a non farci inghiottire dalla paura di una nuova separazione?

Come facciamo a tornare a quella spensieratezza che avevamo prima della rottura?

Una possibile risposta, che per me è anche quella più sensata, credibile e realistica, è quella proposta dalla filosofa Claire Marin: «Nella gioia. Assumersi il rischio di vivere significa scommettere sulle gioie possibili. E avere la forza di ricordarsi, anche nella notte tragica, della scintilla di gioia che si celava in essa» (8).

BIBLIOGRAFIA

  1. Claire Marin, La fine degli amori, Einaudi, Torino, 2023, p. 5.
  2. Ivi, p. 11.
  3. Ivi, p. 28.
  4. Blaise Pascal, Pensieri, Einaudi, Torino, 2004.
  5. Zygmunt Bauman, Amore liquido, Editori Laterza, Bari-Roma, 2003, p. 13.
  6. Claire Marin, op. cit., p. 69.
  7. Ivi, p. 70.
  8. Ivi, p. 116.