Adriana Cavarero: Differenza e Relazione parte I

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Gli incontri casuali sono spesso i migliori, non trovate? Io per esempio non avrei iniziato a scrivere se non mi fossi imbattuta, per caso, in un volantino che presentava il progetto di cui vi parlerò ogni mese da qui in poi. Sto parlando di CONTRA/DIZIONI – Prospettive di filosofia femminista e queer: si tratta di un ciclo di incontri che si svolgerà con cadenza mensile presso l’Università Statale di Milano e che intende offrire una formazione filosofica in merito alle più significative direzioni della filosofia femminista e queer contemporanea, con l’intento di avviare un percorso di ricerca e dibattito che dia spazio a quelle “filosofie” lasciate sempre ai margini, dando così risalto ai nuovi e originali orizzonti riflessivi che esse sono state in grado di aprire nel panorama filosofico contemporaneo.


CONTRA/DIZIONI è un’iniziativa a cura di CONTRA, un gruppo informale di student* e dottorand* nato nel 2019 all’interno della Statale di Milano che si occupa di organizzare e promuovere occasioni di incontro in cui approfondire tematiche legate non solo alla filosofia femminista e queer, ma anche alla filosofia politica e all’estetica contemporanea.


A rendere concretamente possibile la realizzazione di questo progetto sono stati poi la Professoressa Chiara Cappelletto e il Professor Marco Geuna, con il sostegno istituzionale e finanziario del dipartimento di Filosofia “Pietro Martinetti” dell’Università degli Studi di Milano. 

Il primo incontro si è tenuto mercoledì 6 novembre, e a fare gli onori di casa è stata niente di meno che Adriana Cavarero, figura di spicco nell’ambito della filosofia femminista contemporanea in Italia e all’estero, nonché una delle maggiori esponenti del pensiero della differenza sessuale. Ed è proprio di quest’ultimo che vorrei parlarvi, cercando di ripercorrere gli stessi passi fatti da Cavarero durante il suo discorso. 

A questo punto qualcuno potrebbe chiedersi: perché delle questioni prettamente filosofiche dovrebbero interessare a qualcuno che non ha scelto di studiare Filosofia, e che anzi della filosofia non gli è mai fregato niente?


Alla fine di femminismo si può parlare benissimo senza avere alcuna nozione di filosofia! Vero. O forse no?


Diciamo vero solo in parte. Perché quello che forse non tutti sanno è che, se il mondo in cui viviamo, la cultura in cui siamo immersi, perfino il linguaggio che utilizziamo sono dominati da un’ideologia patriarcale, sessista, maschilista o che dir si voglia, è anche colpa della filosofia. Ebbene sì, se non fosse esistita la filosofia non saremmo qui a parlare di femminismo. Beh dai, forse ho esagerato… Allora diciamo che gli stereotipi di cui tutti noi uomini e donne siamo vittime sono frutto di oltre due millenni di attività filosofica che, nel corso della sua lunga storia, li ha concettualizzati e radicati sempre più all’interno della cultura occidentale.

Per trovare le origini della nostra cultura e della filosofia che l’ha prodotta dobbiamo quindi tornare alla Grecia del V secolo a.C. È proprio da qui che comincia il nostro viaggio alla scoperta delle radici del patriarcato, ed è anche da qui che Adriana Cavarero inizia la “pars destruens” del suo discorso. (1) 

Per chi fosse completamente digiuno di filosofia, è importante sapere che buona parte del pensiero filosofico occidentale può essere letto come una rielaborazione critica, più o meno originale a seconda dei casi, del pensiero dei due più famosi e importanti filosofi di tutti i tempi: Platone e Aristotele. Su questi due filosofi ci sarebbe da scrivere per secoli (e infatti così è stato!), ma ai fini del nostro discorso ci soffermeremo solamente sui punti che riguardano il nostro argomento principale, ovvero la nascita dell’ideologia patriarcale.


Iniziamo dunque dal mito della caverna di Platone: immaginiamo che degli uomini siano nati prigionieri in una caverna, e che siano stati incatenati in modo da potersi rivolgere solo verso il muro che hanno di fronte.


Alle spalle dei prigionieri corre una strada rialzata che va verso l’uscita della caverna, percorsa da altri uomini che trasportano oggetti. I prigionieri però di questi ultimi conoscono solamente le ombre che il fuoco posto alla fine della caverna proietta sulla parete di fronte a loro, a cui attribuiscono anche le voci che sentono.

Poniamo ora che uno solo dei prigionieri venga liberato e possa vedere la realtà al di fuori della sua caverna: inizialmente sarebbe spaesato. Poi però comincerebbe ad abituarsi alla luce e riuscirebbe a vedere le cose così come sono nella realtà, e non come pensava che fossero nella sua prigionia. Nel suo percorso di liberazione volgerebbe infine il suo sguardo verso il cielo e il sole stesso, che per Platone rappresenta l’Idea del Bene, la Verità, la Conoscenza.  La fine preferisco non raccontarvela, anche perché non è rilevante per il nostro discorso, ma invito tutt* ad andarsi a leggere queste pagine di straordinaria bellezza e potenza espressiva (come del resto tutti i dialoghi platonici), che se penso a quando sono state scritte mi viene la pelle d’oca!

Questo mito, che è sicuramente tra i più famosi e utilizzati di tutta la produzione platonica, ha svariati significati; il principale però è quello che dà vita al soggetto umano così come ancora oggi lo pensiamo, attribuendogli quelle caratteristiche che manterrà invariate almeno fino all’avvento del post-moderno in età contemporanea (di cui avremo modo di parlare più avanti).


Cerchiamo di fare più chiarezza: la prima cosa da notare è che Platone parla solamente di “uomini”, intesi come soggetti di sesso maschile.


In secondo luogo, il mito della caverna non è che una magnifica allegoria del processo di creazione ed evoluzione del soggetto umano, che man mano si erge verticalmente verso la Conoscenza. E questo soggetto viene definito da varie caratteristiche: innanzitutto, come abbiamo già detto, è maschile, perché di soli uomini si parla; è poi autonomo (nel senso di “autopoiesi”, il farsi da soli) e indipendente, nel senso che è da solo, così come solo è l’unico prigioniero che riesce ad uscire dalla caverna; dunque è anche irrelato, nel senso che non ha relazioni, si forma da solo e non attraverso gli altri.

Ma allora come si forma? Attraverso la conoscenza, la razionalità: attraverso il pensiero (concetto che Cartesio ha pensato bene di sintetizzare col suo famoso “cogito ergo sum”, che di innovativo in realtà ha ben poco). Ecco allora che, con un semplice racconto, Platone ha fissato per sempre il modo in cui il pensiero occidentale penserà e descriverà la sua soggettività: un soggetto maschile, autonomo, irrelato e pensante.


Bene, fin qui tutto molto chiaro, ma la donna? Che fine ha fatto? Ebbene, la donna nel mito della caverna è rappresentata proprio dalla caverna, che a sua volta non rappresenta altro che un utero, ovvero ciò che dà la vita al soggetto umano.


Soggetto che però, come abbiamo visto, viene inteso solamente al maschile, relegando il femminile nella categoria del sub-umano, nel senso di ciò che è meno di un umano, che incarna un’umanità incompleta

Questo ci dà modo di passare al nostro secondo filosofo, nonché migliore allievo di Platone: Aristotele. Ci occuperemo in particolare di una piccola parte della sua opera che ha maggiormente influenzato la tradizione culturale occidentale: la Politica. Aristotele si occupa qui di definire cosa appartiene alla dimensione dell’oikos, della casa: innanzitutto l’uomo, che però è prima di ogni altra cosa un cittadino della polis; poi c’è la donna, che però non è una cittadina, ma solamente una moglie e una madre; infine i figli, gli schiavi e gli animali.


L’uomo è il capo dell’oikos, o meglio, ne è il padrone, dunque possiede tutto ciò che ne fa parte, esseri umani compresi, governandoli come meglio crede. (2)


Nonostante l’uomo sia il padrone indiscusso dell’oikos, la sua dimensione di realizzazione si trova nell’ambito della politica, della polis, perché egli è un “animale politico”; la donna invece appartiene alla dimensione domestica e il suo compito è quello di prendersi cura della casa, dei figli e del marito. Mentre l’uomo si realizza dunque attraverso una dimensione intellettuale che coinvolge la sfera della razionalità, la donna è adibita alla “cura dei corpi” (citando Adriana Cavarero) e non ha accesso alla sfera della politica, che oggi chiameremmo “sfera dei diritti”. 

È da qui, da Platone e da Aristotele, che nasce e si sviluppa la tradizionale cultura occidentale e la sua ideologia dominante: è qui che nasce il patriarcato. Ed è sempre qui che si formano i tre più grandi e radicati stereotipi legati alla donna. Il primo: la donna domestica di Aristotele, la donna madre/moglie/figlia. Il secondo: la donna come oggetto sessuale del desiderio del soggetto maschile, incarnata nella figura della sirena incantatrice ma anche in quella della prostituta. E infine il terzo e più complesso: quel femminile irriducibile rappresentato dalla caverna del mito platonico, quel femminile che non si può descrivere, che non si può comprendere, che è freudianamente perturbante proprio perché continua in qualche modo a sfuggire alle definizioni; e anche l’unico che, in virtù di questa nebulosità, riesce a scampare al destino di essere oggettivato


Quindi sì, purtroppo la nostra cultura nasce impregnata di una misoginia dura a morire, come dimostra il fatto che più di duemila anni dopo siamo ancora qui a parlare di discriminazioni di genere (e non solo).


Ma non fatevi bloccare dai pregiudizi: la filosofia greca rappresenta per noi un patrimonio culturale preziosissimo, e sarebbe sbagliato credere che essa abbia avuto solamente un impatto negativo sulla nostra storia. In fondo Platone, e ancor di più Aristotele, si sono limitati ad osservare e poi raccontare quella che era l’organizzazione sociale e politica del loro tempo; e se hanno una colpa è quella di aver concettualizzato e tramandato la legittimazione razionale di questa situazione, che però purtroppo esisteva già.





(1) Per i non appassionati della filosofia cartesiana: la parte del discorso che cerca di demolire una qualche teoria, convinzione, pensiero, per poi costruirne una nuova attraverso quella che si chiama, appunto, “pars construens”.
(2) Qui sarebbe molto interessante aprire una lunga parentesi su come questo testo sia stato usato dagli oppressori di tutti i tempi per giustificare e legittimare una qualsiasi forma di discriminazione e di dominio, sia verso altri esseri umani che verso gli animali non umani… ma non è questo il luogo adatto.

Foto di copertina Joseph Wright of Derby – Cavern, near Naples