Onibaba. Il mostruoso femminile nell’immaginario giapponese
Siamo abituatə a pensare al mondo orientale come a una realtà profondamente diversa dalla nostra: dall’alfabeto al cibo, dalle usanze sociali all’arte.
Eppure, per ricorrere a un vecchio detto, tutto il mondo è paese.
Se da un lato è confortante saperlo, perché vuol dire che ci sono delle costanti che avvicinano tutti gli esseri umani e rendono più semplice la comunicazione, dall’altro, quando si tratta di aspetti negativi della società, come il sessismo o le discriminazioni in generale, non possiamo che constatarne la triste ripetitività.
Il testo di Rossella Marangoni, Onibaba. Il mostruoso femminile nell’immaginario giapponese, offre proprio l’occasione di riflettere sulla vicinanza tra culture apparentemente lontane.
Leggendo una dopo l’altra le leggende sui mostri femminili giapponesi raccolte in questo volume, scopriamo con curiosità figure e luoghi lontani da quelli abituali; ma nello stesso tempo, possiamo riscontrare somiglianze con il repertorio di romanzi e miti più conosciuto qui in Occidente. In particolare, quelli in cui si narra di protagoniste atipiche; per intenderci, non le classiche eroine letterarie come Jo March o Elizabeth Bennet.
Prendiamo Medea, la definiremmo senza dubbio un personaggio forte, ma non un’eroina.
Infatti, Medea incarna la passionalità di un sentimento primordiale (l’amore) a cui si oppone la razionalità di Giasone, il marito, che vuole abbandonarla e risposarsi per ereditare il trono di Corinto. All’ambizione politica maschile si contrappone il desiderio di Medea che, oltre ad essere una madre, è una donna non imbrigliabile nel ruolo sociale di moglie devota, tanto che giunge ad uccidere i suoi stessi figli.
La cultura giapponese è piena di figure simili: donne che si ribellano all’autorità maschile e non rispettano le convenzioni sociali.
È il caso di Onibaba, un mostro in cui si è tramutata una moglie gelosa delle relazioni extraconiugali del marito. Pur essendo consuetudine per gli uomini spostati, quella di frequentare anche altre donne nell’antichità giapponese, in questo caso la moglie ferita cerca vendetta e si trasforma in un essere demoniaco (2).
Secondo Rossella Marangoni, la presenza di un elevato numero di leggende sui mostri femminili ha origini nella cultura shintoista per poi nell’affermarsi del buddhismo:
«I due temi fondamentali nella spiritualità shintoista sono: hare, “la purezza”, e kegare, “la contaminazione”; ossia il suo opposto. […] Quali sono gli elementi della contaminazione nel mondo antico giapponese? Sono massimamente la morte e il sangue, ossia le ferite, che possono riguardare sia gli uomini sia le donne, e il sangue mestruale, cioè quello che defluisce esclusivamente dal corpo delle donne. Così come il sangue versato durante il parto.» (3)
All’inizio, sia uomini che donne erano considerati impuri: gli uomini per le ferite sanguinanti riportate in guerra e le donne in quanto a contatto con il sangue durante il periodo mestruale e il parto. Ma allora cosa è successo?
Come mai i mostri sono in gran parte femminili?
Il processo, con le dovute differenze socio-politiche, è molto simile a quanto avvenuto in Occidente. Con l’affermarsi della cultura patriarcale, era necessario rafforzare la predominanza maschile anche a livello ideologico. Per questo, l’elemento contaminante era da addurre esclusivamente al genere femminile che doveva sottomettersi all’uomo (padre, marito o fratello che fosse) in quanto sesso impuro da controllare.
Di conseguenza, le donne che non rispettano il loro posto nella società diventano mostri: sono spettri vecchi, spettinati, mogli gelose dei mariti.
Si tratta di donne inadempienti, colpevoli addirittura di non generare figli. Assurdo, ma, a ben pensare, è comune il senso di vergogna (4) che spesso affligge le donne sterili, probabilmente originato dal pregiudizio che a lungo ha attribuito l’infertilità di una coppia esclusivamente alla donna.
Una figura che in Giappone rappresenta perfettamente questo tipo di colpevolizzazione è Ubume, la donna morta di parto tramutatasi in un demone. Leggenda vuole che, fingendosi una donna piangente con un bambino in braccio, Ubume chiedesse aiuto ai viandanti per portare il figlio mai nato in salvo, oltre la riva del fiume. La donna che non contribuisce alla sopravvivenza del clan diventa quindi un mostro orribile che solo un guerriero coraggioso può fronteggiare.
Ma non tutti i demoni sono brutti. Nel XIX secolo, il Giappone si apre alle influenze occidentali e al fascino della femme fatale (5).
Nelle storie non troviamo più esseri orripilanti, ma seduttrici bellissime e implacabili. Differentemente dalle dark lady occidentali, questi mostri conservano la loro soprannaturalità: sono spettri o fantasmi che dopo la notte si dileguano. L’aura di ineffabilità li rende esseri lontani, schivando il pericolo che le donne giapponesi si possano identificare con loro (6).
Dunque, l’idea di fondo è che tutto ciò che è considerato divergente dai canoni tradizionali vada messo al bando e considerato anormale.
Tutto ciò che spicca e per questo genera scandalo viene immediatamente additato: è così che nascono i mostri non solo in Giappone, ma in tutto il mondo. La speranza è che un giorno “i devianti” saranno talmente tanti che smetteranno di farci paura. Allora non esisteranno più mostri, ma soltanto persone.
Grazie Mimesis Edizioni!
- Ivi, p.68.
- Ivi, p.16.
- https://www.iss.it/infertilit%C3%A0-e-pma/-/asset_publisher/iRMoeuHJhI9n/content/id/3578169
- Ivi, p.139 e ss.
- Ivi, p.163.
- Ivi, p.174.
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