Merleau-Ponty: Corporeità, Visione, Narcisismo

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Non sono certa di ricordare il numero di volte in cui abbia visto le mostre fotografiche di Steve McCurry in giro per l’Italia.

Percorsi tematici diversi, progetti culturali differenti, sensazioni sempre nuove, sguardi fissi e inattesi.

Steve McCurry è il fotografo statunitense della fotografia di guerra, della fotografia urbana, di strada, di reportage ma è soprattutto il fotografo dei ritratti (celebre la sua Ragazza Afgana pubblicata nel giugno del 1985 sul National Geographic magazine) e degli sguardi.

Gli sguardi di McCurry sono esotiche finestre su realtà sconosciute o ignorate, di culture e di storie diverse. Sono sguardi di sofferenze e cicatrici, talvolta di gioie inconsapevoli; e ci guardano, guardano proprio noi

Non sono certa di ricordare il numero di volte in cui abbia visto quegli sguardi ma ne ricordo bene l’effetto su di me, il loro rivelare sempre qualcosa, di qualcuno, di noi stessi, rivolto a tutti eppure strettamente personale e connesso all’effetto soggettivo che ne deriva.

È così che la celebre ragazza afgana sembrava raccontarci con il suo sguardo fermo e profondo la sua condizione da profuga, costringendoci a guardare una realtà che ci appartiene più di quanto le nostre convinzioni ci suggeriscano, costringendoci a presentarci davanti al dolore dell’altro.


Un altro diverso da noi che ci costringe a volgere lo sguardo sulla nostra vita mostrandone precarietà e debolezze, forza e consapevolezza.


Rimanendo nel suggestivo mondo della fotografia, è recente la mia visita alla mostra di Vivian Maier, fotografa anch’essa statunitense la cui immensa opera è stata scoperta poco prima della sua morte: scatti rubati alla vita di strada e una serie infinita di autoscatti. Cercava la sua immagine per vedere se stessa, si osservava in una qualsiasi superficie riflettente, e catturata dall’obiettivo si riconosceva.


L’arte offre un canale privilegiato sul quale ri-fletter-ci e, in qualsiasi modalità scelga di incarnarsi e rappresentarsi, è lo sguardo la sua modalità di accesso privilegiato. 


Quello sguardo che, come abbiamo affrontato nei nostri precedenti appuntamenti sulla visione fenomenologica, sentiva il peso della vergogna con Sartre o manifestava il mistero dell’ambiguità inafferrabile del volto con Lévinas, è con il maggiore esponente della fenomenologia francese, Maurice Merleau-Ponty, che si fa corpo vissuto, un corpo esteriore che trova espressione attraverso il suo comportamento visibile. 

È Merleau-Ponty che si occuperà della convergenza tra la fenomenologia e il mondo dell’arte, con un’attenzione peculiare per l’invenzione del cinema, poi in particolare una prolungata meditazione sulla letteratura (Proust, Valéry, Balzac e altri) e la pittura (Cézanne sopra tutti ma anche Paul Klee).

Attraverso queste indagini egli sviluppa la propria concezione della soggettività corporea, già articolata nella Fenomenologia della percezione, dirigendosi verso una ulteriore e più approfondita revisione delle concezioni classiche della soggettività, che pone il corpo vissuto e vivente al “cuore dello spettacolo del mondo”. 


Quale corpo? E quale mondo?


Alla luce di questa prospettiva, noi non abbiamo un corpo: noi siamo corpo. 

Ed è un corpo soggettivo così come il soggetto è sempre corporeo. Questo essere corpo è per M-P. la chiave di comprensione di tutte le forme di esperienza relazionali: è attraverso il corpo che il soggetto si apre al mondo così come il mondo si apre al soggetto. Le relazioni interpersonali tra corpi disegnano un cerchio di reazione (e relazione) reciproca tutt’altro che chiuso, tutt’altro che statico, tutt’altro che oppositivo; l’opposizione che era stata colta da Sartre per Merleau-Ponty non è contrastante ma legame reversibile in continuità e connessione.

In altri termini: vi è una originaria modalità di esposizione corporea del soggetto al mondo per cui il soggetto vede il mondo e contemporaneamente viene visto dal mondo, anzi desidera essere visto perché desidera se stesso ed è solo passando attraverso lo sguardo altrui che può cogliersi.

L’interpretazione della visione di M.P. è carnale e apre una questione ontologica: l’interconnessione corporea tra soggetti non è qualcosa che accade accidentalmente ma al contrario è la stoffa di cui i soggetti corporei sono costituiti.


Il desiderio di essere visti si configura come il motore attivo della reversibilità dello sguardo che è originario: prima di vedere, si è visti, anzi si è guardati (poiché le cose guardano).


Questa struttura di interrelazione corporea tra soggetti, che Merleau-Ponty chiama per questo motivo “intercorporeità”, si fonda su ciò che egli definisce in termini di Narcisismo ontologico.

Merleau-Ponty ricorre al mito di Narciso per descrivere sia la condizione “normale” di esposizione di ogni soggetto alla visione altrui, sia anche le sue varianti “patologiche”.

Infatti, Narciso è colui che non può vedere che se stesso ignorando gli altri, è proprio per ciò si perde. Narciso non può vedersi in quanto non vede gli altri e quindi non vede il loro vederlo. Solo riconoscendo la propria esposizione agli sguardi che “circolano” nel mondo il soggetto può essere se stesso, ossia l’altro dell’altro. Solo aprendosi a questa visibilità originaria il soggetto diventa, propriamente, un sé, un individuo.


Il pensiero filosofico non è mai sconnesso dalla realtà e dalla rete della vita, anzi ne disegna e tesse la trama, scucendola e ri-tessendola.

È così che oggi, guardando alla nostra società e alle dinamiche che più o meno velocemente la muovono, il narcisismo di cui parla Merleau-Ponty si delinea non solo come eventualità possibile ma come via ricercata, enfatizzata, voluta, diffusa. È il frutto di una confusione identitaria che lascia terreno fertile a risvolti patologici sempre più radicati in cui l’esigenza di essere guardati si isola e si dimentica di restituire all’altro quella attenzione necessaria per la sua costruzione, per la sua esistenza.

Forse è questo quello che ci vogliono suggerire i ritratti di McCurry o la ricerca costante e puntuale di Vivian Maier. Forse è questo che dovremmo tornare a fare: ritrarre l’altro, ricercare il suo sguardo, non chiuderci nel cerchio ma mantenerlo costantemente aperto, contro ogni forma di egoismo narcisistico possibile.



Immagine di copertina: John William Waterhouse – Echo and Narcissus, 1903