
«Angela, can you hear the earth is turning?
Angela, the world watches you
Angela, you soon will be returning
To your sisters and brothers in the world» (1)
Nel 1972, Yōko Ono e John Lennon intonavano queste parole del brano Angela, sospingendo nel canto un desiderio collettivo: la liberazione di Angela Y. Davis.
Il 4 giugno dello stesso anno, Davis veniva finalmente prosciolta da tutte le accuse (rapimento e omicidio, collegate al caso dei Fratelli di Soledad (3) che l’avevano costretta a passare un anno e mezzo in carcere. Quella donna che, l’anno prima, era stata inclusa dall’FBI nella lista delle dieci persone più ricercate sul suolo statunitense, una volta scarcerata diverrà presto un corpo simbolico, testimonianza vivente della resistenza antirazzista e antisessista, e voce militante dell’abolizionismo carcerario.
Come filosofa, femminista, ecologista e comunista, Davis ha condotto instancabilmente, dagli anni ’70 sino a oggi, una lotta che trova la sua origine nel punto preciso in cui si intersecano tre dimensioni: il genere, la razza, la classe (3).
Con una prospettiva marxista, suffragata dalle correnti filosofiche novecentesche, ripenserà in modo critico una gamma di tematiche (dal carcere, allo Stato di Palestina, sino ai diritti per la comunità LGBTQIA+), che troveranno spazio nei numerosi saggi pubblicati nel corso degli anni.
Il testo Cinquant’anni di lotte. Interviste, a cura di Sharon Lynette Jones, edito nel 2024 per minimum fax, emerge non dalla penna di Davis ma dalle sue parole raccolte in interviste e dialoghi, restituendoci il paradigma del suo pensiero nell’arco dal 1970 ad oggi. L’evoluzione del suo vissuto, profondamente intrecciato con le dinamiche storiche e sociali che hanno attraversato questo mezzo secolo, ci restituisce un’immagine della “Sweet Black Angel” (4) come un assoluto punto di riferimento della pratica attiva di resistenza.
Nella prima intervista riportata, che risale all’anno della sua scarcerazione, Davis fornisce una descrizione precisa del termine rivoluzionario:
«I rivoluzionari sono uomini o donne che possono avere identità sfaccettate, ma che di fatto desiderano trasformare la natura della società per creare un mondo che risponda agli interessi del popolo» (5).
A quel tempo, Davis aveva 28 anni, e già gettava le basi per una serrata critica a un sistema sociale, senza lasciarsi sedurre da teorie o astrazioni. Quel desiderio di trasformazione, infatti, con Davis troverà sempre la modalità per tramutarsi in prassi, sedimentandosi nell’azione concreta e nella resistenza, individuando degli spazi in cui i corpi resistenti possano farsi esplicite manifestazioni di un sentimento collettivo.
Per Davis, il pensiero non è mai astrazione: è sempre già corpo, spazio, relazione.
Così, quando afferma, tra il 1998 e il 1999, che «l’obiettivo è ripensare il ruolo repressivo giocato dallo stato al tempo del tardo capitalismo», non teorizza soltanto, ma opera con l’intento di «ricavare uno spazio di resistenza» (6), prefigurando uno spazio possibile, liberato, che resiste. Uno spazio in cui le soggettività marginalizzate — donne, persone razzializzate, queer, incarcerate — possano riappropriarsi della propria voce e del proprio potere.
Davis, con il suo corpo da donna nera lesbica, occupa quei luoghi di resistenza che teorizza, individuando nell’attivismo la vera e unica pratica che può farsi trainante di quel cambiamento rivoluzionario cui si auspica.
«La sfida che ci attende ora», afferma, «sarà passare dalla consapevolezza all’azione, dalla teoria alla pratica» (7), portando il movimento contro la repressione non solo nelle strade, nelle fabbriche e nei sindacati, ma anche oltre le soglie del personale e nei discorsi privati.
Ciò che Davis proietta è una modalità radicale di fare attivismo, nel senso che diventa capace di affondare le proprie radici nella quotidianità della lotta. La resistenza non risiede più solo nella manifestazione, nel momento di occupazione della piazza, ma diviene un sentimento che i corpi sono in grado di assorbire, rendendola dunque sempre nomade e itinerante.
Il senso di comunità, afferma Davis, deve riuscire ad andare oltre la dimensione pubblica delle manifestazioni, penetrando in quella privata degli individui (8).
Da mezzo secolo, Angela Davis continua, nella pratica quotidiana, a rendere concrete le teorie di cui si rende soggetto e protagonista. La sua voce parla di un vissuto, di un corpo intrinsecamente politico, su cui si costruiscono delle pratiche attive di resistenza in costante dialogo e apertura nei confronti della mutevole alterità.
Cinquant’anni di lotte non celebra solo una carriera, ma testimonia un processo rivoluzionario ininterrotto, un movimento perpetuo che non smette mai di interrogare, disturbare, trasformare.
Grazie minimum fax!
- «Angela, riesci a sentire che la Terra sta girando?
Angela, il mondo ti guarda
Angela, presto farai ritorno
Dalle tue sorelle e dai tuoi fratelli nel mondo» - Il caso dei Fratelli di Soledad (dal titolo del libro scritto dal carcere da Jackson) riguarda tre prigionieri afroamericani – George Jackson, Fleeta Drumgo e John Clutchette – accusati nel 1970 dell’omicidio di una guardia carceraria in un contesto di forte tensione razziale nel carcere di Soledad, California. Angela Davis fu coinvolta indirettamente quando armi a lei intestate vennero usate in un tentativo fallito di liberazione armata da parte di Jonathan Jackson, fratello di George.
- Il suo libro maggiormente noto, che tratta precisamente di questo intreccio, reca infatti il titolo Donna, razza e classe (edizione italiana con la traduzione di M. Moïse e A. Prunetti, prefazione di C. Arruzza, Alegre, Roma, 2018).
- Dal titolo della canzone, dedicata a Davis, dei Rolling Stones nel 1972.
- A. Davis, Cinquant’anni di lotte. Interviste, a cura di S. L. Jones, traduzione di S. Artuso, O. Ferrero, M. Finaldi, M. Joketic, G. Meschiari, G. Pavan e A. Straullu, minimum fax, Roma, 2024, p. 32.
- Ivi, p. 186.
- Ivi, p. 98.
- Ivi, p. 253.
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