Il potere della rappresentazione

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L’avanzata del femminismo intersezionale e la presa di coscienza di come le esperienze di discriminazione di cui sono vittime le donne non siano uguali, pur intersecandosi e sovrapponendosi le une con le altre, ha sollevato un nuovo problema: quello dei riferimenti culturali.

In altre parole, se vogliamo fare in modo che tutte le donne si sentano incluse e rappresentate dai modelli culturali proposti è necessario lavorare su questi ultimi.

Davanti al sistema patriarcale occidentale che ci vorrebbe omologare verso un unico standard di riferimento, una risposta potrebbe essere quella di crearne tanti altri, senza per forza distruggere quello di partenza.

In Principesse. Eroine del passato, femministe di oggi (1) Giusi Marchetta scrive proprio questo. Partendo dalle figure delle principesse Disney e dal posto che hanno occupato nell’immaginario collettivo, Marchetta sostiene che questi modelli non vadano rinnegati, ma ampliati. Le principesse possono continuare a essere il paradigma per molte bambine, ma non devono essere l’unico: è necessario che gli orizzonti vengano allargati per permettere a tutte di scegliere liberamente i modelli con cui identificarsi.

Il senso di fastidio che molte di noi provano verso le storie Disney con cui siamo cresciute da bambine deriva probabilmente dal loro scopo educativo.

Le principesse ci hanno sempre insegnato, come scrive Simone de Beauvoir ne Il secondo sesso, che «[…] per essere felic[i] bisogna essere amat[e]; e, per essere amat[e], bisogna aspettare l’amore» (2). Per molto tempo abbiamo creduto che il nostro unico compito fosse l’attesa e che un bel giorno un principe azzurro si sarebbe presentato alla nostra porta, salvandoci da qualsiasi problema.

«Nelle canzoni, nelle novelle si vede l’uomo partire alla ventura per trovare la donna; taglia a pezzi i draghi, combatte i giganti; la fanciulla è imprigionata in una torre, in un palazzo, in un giardino, in una caverna, incatenata a una rupe, in ceppi, addormentata: aspetta» (3).

La passività è una dote che viene insegnata alle donne fin dalla più tenera età e trova la sua ragion d’essere nella strumentalizzazione del corpo femminile. Quello delle donne è un corpo delicato e le principesse ce lo ricordano: la pelle di porcellana e i lunghi capelli non sono fatti per osare, per andare incontro alla realtà, ma per lasciare che accada.

Le donne ricercano nelle riviste, nei libri e nei prodotti della cultura pop in generale, dei modelli in cui immedesimarsi, senza rendersi conto che spesso si tratta di parametri decisi dalla controparte maschile.

Esistono però alcuni punti di riferimento per le donne che spesso stonano con l’ideale cui dovrebbero tendere e che rappresentano per loro una novità in grado di spingerle a ripensarsi e reinventarsi in un modo totalmente sconosciuto. Si tratta di rari modelli che sfuggono per qualche motivo dall’egemonia culturale maschile e riescono a fare colpo nell’immaginario collettivo delle donne.

Un esempio storico è stato quello di Dana Scully.

Alcuni prodotti pop hanno un potere di incidere sulla vita delle persone che i prodotti di nicchia non hanno: X Files ne è un esempio. Si tratta di una serie tv andata in onda alla fine degli anni Novanta dove uno dei due protagonisti è appunto la scienziata Dana Scully. Nel suo saggio Giusi Marchetta descrive la prima volta in cui si è trovata davanti Scully: «Eccola, dunque, la prima scienziata che vedevo in carne ed ossa, dentro e fuori lo schermo. Era il 1994. Prima, non credo esistessero» (4).

Quando immaginari nuovi vengono rappresentati e visti per la prima volta, diventano reali.

Per una bambina degli anni Novanta, vedere una scienziata sul piccolo schermo significava non solo che quella professione potesse effettivamente essere svolta da una donna, ma anche che quella donna un giorno sarebbe potuta essere lei. Dana Scully ha rappresentato un fenomeno così importante perché il suo personaggio rompeva gli schemi, andava contro tutte quelle rappresentazioni che spingevano le donne a immedesimarsi in figure di contorno, passive. Scully è diventata un personaggio importante nella cultura di massa, poiché ha appassionato così tanto le giovani donne da spingere moltissime di loro a iscriversi alle facoltà STEM, dando vita a quello che è stato definito “Effetto Scully”. A questo proposito l’autrice riporta lo studio del Geena Davis Institute on Gender in Media:

Una ricerca del 2019 ha effettuato un’indagine su un campione di circa 2000 donne di 25 anni o più, che conoscevano la serie e risultavano impegnate in studi di natura STEM o lavoravano già nel settore scientifico. Su 2021 partecipanti quasi due terzi, il 63% di quelle che conoscevano Dana Scully, hanno affermato che è stata lei ad aumentare la loro convinzione dell’importanza delle STEM, mentre il 50% ha risposto che ha aumentato il loro interesse per quelle discipline. Ancora più interessante è la percentuale altissima di donne che l’hanno indicata in modo autonomo come modello personale, in particolare nella scelta degli studi e nella carriera.

Per quanto riguarda le spettatrici non occasionali, Scully ha influenzato il 43% a prendere in considerazione l’idea di perseguire una carriera negli ambiti STEM, il 27% a studiare effettivamente in campi STEM e il 24 a lavorarci. Alla richiesta di descrivere il personaggio la maggior parte delle partecipanti all’indagine ha scelto come parole “intelligente”, “forte”, “sicura”, “dottoressa”, “competente”, “scettica”, “tenace” e molte hanno dichiarato che è stata Scully ad accrescere la loro fiducia nelle proprie possibilità di eccellere in una professione dominata dagli uomini. (5)

L’effetto Scully è la dimostrazione di come rappresentare realtà nuove sia fondamentale per permettere a tutte quelle persone che non si riconoscono nella norma di esistere senza sentirsi sbagliate.

Ma non solo: dare spazio culturalmente a storie mai raccontate prima ha l’enorme potere di influenzare le menti, che possono riconoscersi in quelle narrazioni e decidere di replicarle.

È però importante ricordare che Dana Scully non esclude Cenerentola: le due rappresentazioni possono coesistere e, anzi, possono essere due fonti da cui attingere contemporaneamente. Infatti, se decidessimo di cancellare alcuni modelli femminili per il loro perpetrare un’idea di femminilità o di bellezza che crediamo retrograda e sbagliata, agiremmo esattamente al contrario, cioè toglieremmo opzioni in cui qualcuno potrebbe immedesimarsi.

Il compito del femminismo intersezionale è dunque quello di continuare sulla strada dell’inclusione di ogni identità, prendendo in considerazione tutti quegli aspetti che finora sono stati ignorati. Per fare in modo che la libertà sia un lieto fine a portata di tutte e tutti.  

Note

(1) Giusi Marchetta, Principesse. Eroine del passato, femministe di oggi, Torino: ADD Editore, 2023.

(2) Simone de Beauvoir, Le deuxième sexe, Paris: Éditions Gallimard, 1949; trad. di A. Arduini, Il secondo sesso, Milano: il Saggiatore, 1961, pp. 289-290.

(3) Ibidem.

(4) Marchetta, op. cit., p. 132.

(5) Ivi, p. 134.

Bibliografia

Simone de Beauvoir, Le deuxième sexe, Paris: Éditions Gallimard, 1949; trad. di A. Arduini, Il secondo sesso, Milano: il Saggiatore, 1961.

Giusi Marchetta, Principesse. Eroine del passato, femministe di oggi, Torino: ADD Editore, 2023.